Eugenio Castellotti
di Luca Delli Carri e Paola Santoro

Estratto da "La Repubblica delle Donne" n.267 dell'11 Settembre 2001

Quando nacque, il 10 ottobre 1930, sua madre, Angela, nubile e poco più che sedicenne, preferì tacere che il bambino era figlio dell'avvocato Castellotti, quindi dell'alta borghesia dei lodigiano: il padre lo riconobbe 9 anni più tardi. Lei, Angela, a quel bambino ostinato non vietò mai nulla. Lui, il padre, uomo severo e in età da nonno, gli proibì quasi tutto. Eugenio amava correre. Sfrecciava sulle motociclette, giovanissimo. Arrivò a falsificare la carta d'identità, invecchiandosi di qualche anno per essere in età da guida. Poi arrivarono i 18 anni, che per Eugenio vollero dire soprattutto la patente. La prese 3 giorni dopo il compleanno. Un anno più tardi, alla fine dei 1949, morì suo padre, lasciandolo erede di un patrimonio colossale: Eugenio pagò 60 milioni di tasse di successione. All'improvviso era nella condizione di soddisfare ogni desiderio. Il primo fu una Ferrari. Ci andava a Milano, con fare da bullo, sfoggiando un guardaroba da divo. Qualcuno ne contò i capi: 500 camicie, 100 paia di scarpe e 50 abiti. A vent'annì decise che correre gli piaceva troppo per non farne un mestiere. Iniziò con il Giro di Sicilia, con una Ferrari Barchetta, quella che usava tutti i giorni. Poi vennero la Mille Miglia, la Coppa della Toscana, quella delle Dolomiti, il Giro della Calabria. Vínse il Gran Premio di Monaco riservato alle auto sportive, poi quello di Portogallo. Brillava così tanto che lo chiamò la Lancia. I primi mesi dopo il debutto furono segnati dall'euforia ma anche dalla tragedia. Durante le prove, un giorno di maggio del 1955, arrivò in pista anche Alberto Ascari, pilota di fama e grandissimo amico di Eugenio. Alberto, a pochi mesi dal ritiro definitivo, volle provare l'auto di Castellotti; gli chiese anche in prestito casco e guanti. Dopo pochi giri, Ascari uscì di pista e si schiantò. Castellotti non si riprese mai da quel dolore. Per tutta la vita, fu ossessionato dall'imrnagine dei proprio casco e dei propri guanti sul cadavere dell'amico, dall'idea che solo per un caso fortuito non era toccata a lui. La morte di Ascari, pilota Lancia, fu un colpo per la scuderia, c'ne anche in virtù di questioni interne cedette tutto alla Ferrari, macchine e piloti compresi. Castellotti fu catapultato in F1. Concluse il mondiale del 1955 al 30 posto. Cambiata la bandiera, i successi furono gli stessi. Nel 1956 arrivò al titolo di Campione italiano assoluto. Poi vinse la Mille Miglia, la corsa più importante d'Italia, forse dei mondo, sotto una pioggia sferzante. Credeva in se stesso, guidava col piede ancorato all'acceleratore. I rapporti all'interno della squadra intanto si facevano sempre più rigidi, i piloti si disputavano in pista il ruolo di preferito dei Drake. Arrivò l'estate, e per Castellotti quell'anno volle dire anche amore. Conobbe Delia Scala in un ristorante. Il giorno dopo le inondò il camerino di rose. Fu l'unica con cui non gli riuscì di far l'amore subito. La loro storia riempì interi numeri dei settimanali dell'epoca. Lei non voleva vederlo correre. Durante le gare telefonava alle redazioni sportive per chiedere quanti giri mancassero alla fine. Quando lui la presentò a sua madre, Angela, gelosissima, accolse Delia dicendole: «Sembri una cameriera. La cucina è da questa parte»: lei, che per l'avvocato Castellotti era stata più una governante che una padrona di casa. Eugenio s'infuriò e la madre lo cacciò di casa, imponendogli l'out-out come condizione per riallacciare i rapporti. Per risolvere il conflitto tra le sue donne, Eugenio pensò che lui e Delia si dovevano sposare. Glieìo chiese. Lei accettò. Fissarono per il dicembre del 1957. E posero delle condizioni: lui che lei avrebbe smesso di recitare; lei che lui avrebbe smesso di correre. Ma in marzo Ferrari lo chiamò a Modena per provare: glielo disse chiaramente che voleva un record su quella pista. Ma erano tempi duri per il ragazzo di Lodi. Delia era a Firenze, protagonista con Walter Chiari della commedia di Garinei e Giovannini Buona notte Bettina. Eugenio andava a Firenze ogni sera, da Modena, e tornava la mattina dopo. Ogni volta arrivava sempre meno concentrato in pista. E i colleghi non gli rendevano la vita facile: nella squadra, la volontà di primeggiare uccideva le amicizie. Il 14 marzo dei '57 Delia e Eugenio litigarono. Lui dormì solo 3 ore, poi tornò a Modena. La mattina dopo aveva le prove. Era nervoso, si fece controllare la macchina ogni 5 giri. Tirava, ma la pista era scivolosa, e poi accanto aveva Jean Behra, il francese suo ultimo rivale. Eugenio, al volante, faceva i bilanci dei propri 27 anni. Si chiedeva se era stato un buon figlio. Un buon pilota. Se sarebbe stato un buon marito. Poi la macchina toccò il cordolo, sbandò, tagliò per il prato. Dove ricominciava l'asfalto c'era un altro cordolo. L'auto vi picchiò il muso. Si ribaltò. Fine. Erano le 17,19. Eugenio venne sbalzato fuori. Aveva indosso una sola scarpa. Nell'ambiente superstizioso delle corse si diceva che se dopo un incidente il pilota aveva indosso una sola scarpa, non c'erano speranze. Eugenio mori in ambulanza. La stessa sera Delia andò in scena. Saltò qualche battuta, ma continuò a recitare. A portare il lutto, fino alla fine dei suoi giorni, nel '76, fu Angela Castellotti. Le due non si incontrarono mai più. Neppure ai funerali, quasi di Stato. Delia non ci andò.