Luigi Musso
di Luca Delli Carri e Paola Santoro

Estratto da "La Repubblica delle Donne" n.267 dell'11 Settembre 2001

Il padre di Luigi, l'avvocato Giuseppe Domenico Musso, classe 1878, fu abile uomo d'affari e di legge. Aveva vissuto per 35 anni in Cina, dove era stato consulente del governo e posseduto la compagnia tramviaria di Shangai, ricavandone grandi utili. Tornato a Roma aveva fondato una società di produzione cinematografica, la Ici, che al tempo delle sanzioni contro l'Italia era stata l'unica a distribuire film americani, grazie ai buoni rapporti che intercorrevano tra lui e Mussolini. Morì nel 1940, lasciando un importante libro sulle leggi cinesi, un'eredità ingentissima e una famiglia numerosa. I cinque ragazzi Musso vennero educati con durezza: Luigi, il più giovane, nato nel 1929, per alcuni anni fu addirittura spedito al Nobile Collegio di Mondragone, sopra Frascati, dai gesuiti. Lì era solo Luigino, i cognomi non avevano importanza, tanto erano tutti importanti. I gesuiti impartivano un'educazione rigidissima, che sul ragazzo però aveva avuto l'effetto dì indebolire il carattere, la cieca obbedienza inculcata lo faceva sentire inferiore, timoroso. La sua fortuna era stata possedere il talento della guida. Per lui correre era un modo per sfuggire alle responsabilità. Iniziò per caso, come tanti, una sfida con il fratello Luciano che non voleva prestargli l'auto per uscire. Scoprì per gioco l'emozione della velocità, e ne fece un mestiere. Aveva avuto un approccio alle corse teorico, scrupoloso. Ma poi aveva bruciato le tappe: dalla 750 Sport a una Ferrari 2000 e, dal 1953, a una Maserati Sport 2000 assistita dalla casa. Nel 1954, dopo un passaggio a Monza nel Gran Premio d'Italia dell'anno prima, eccolo nell'abitacolo di una Formula 1. Con la Maserati ottiene 14 vittorie in 3 anni. Campione sport nel 1953; 2° alla Targa Fiorìo; 3° alla Mille Miglia; 2° al Gran Premio di Spagna. 1° nel Gran Premio non titolato di Pescara nel 1954. Campione italiano Sport classe oltre 2000 nel 1955. Nel '56 passa alla Ferrari e lì inizia la corsa ad essere il primo tra i migliori. Amava le macchine anche sotto il profilo tecnico. Partiva dal concetto che l'auto era stata domata dagli ingegneri, dai piloti andava solo interpretata. Il coraggio di Luigi non era istintivo, come quello di Castellotti, ma ragionato, logico. Nasceva dall'esperienza e dallo studio delle traiettorie. Con le corse guadagnava molto, però spendeva sempre più di quanto guadagnasse. Amava il gioco. Per lui il poker era un'ossessione. Gli amici dicevano che sapeva perdere come nessun altro, perché era stato obbligato ad impararlo. Con il fratello Luciano aveva lastricato d'oro le strade che portavano da Roma a Montecarlo, a Saint Vincent, a Venezia, a San Remo. Alternava le gare ai casinò. In una sola sera in quello di Venezia puntò 45 milioni - una Ferrari Gran Turismo ne costava 5. Così dilapidò in un attimo il patrimonio di famiglia. A proposito delle abitudini dei fratelli Musso, si mormorava che il padre, andandosene, avesse detto: «Muoio tranquillo, perché anche se spenderanno e spanderanno, ne hanno per quattro generazioni». Dopo 4 anni invece erano già in crisi. Quindi Luigi si mise in affari. Import-export di auto, Plymouth soprattutto, la stessa che guidava lui, per ore e ore, per raggiungere i circuiti. Fu un fallimento. Di più, un'altra fonte di debiti. E fu cosí che iniziò a correre per denaro. In pista, Fiamma l'accompagnava sempre, cronografo alla mano. Era una perfetta donna dei box. Amava le donne, Luigi, e mieteva successi per la bocca, carnosissima, e per gli occhi azzurro ghiaccio, il naso fine, la pelle abbronzata. Il viso era così bello che faceva dimenticare l'accenno di pancetta e le spalle ricurve, A differenza dei suoi colleghi era sempre stato monogamo. Luigi aveva bisogno di una donna accanto. Senza non sarebbe sopravvissuto. Aveva una dipendenza assoluta dalla partner. Si era sposato giovanissimo, ma come tutti i matrimoni precoci non era durata. Poi c'era stata Maria Teresa, buona famiglia, modi raffinati, una delle poche donne ad arrivare in Formula 1. Un rapporto lungo, paritario e logorante. Infine era arrivata Fiamma. Lei non era di buona famiglia, era una ragazza seria e bellissima. Non poteva esserci parità tra loro. Fino all'incontro con Luigi, la vita di Fiamma era stata quella di una ragazza semplice che sognava di fare l'attrice. Lui invece era un ragazzo di alti natali che correva in macchina ed era iscritto all'università, giurisprudenza, dove però aveva dato un solo esame. Lei era follemente innamorata: lo guardava come una bambina guarda il papà, gli preparava la valigia quando lui doveva partire, diceva sempre di sì, si preoccupava per nulla, piangeva quando lui alzava la voce. Quel 6 luglio dei 1958 era per lui un'ossessione. Al Gran Premio di Francia si sarebbe deciso, all'interno della squadra Ferrari, chi avrebbe corso per il mondiale con l'appoggio dei colleghi. E poi il circuito di Reims, con il suo premio colossale, poteva essere sufficiente a ripianare il vertiginoso scoperto bancario che Luigi aveva ormai accumulato. Per uscire da quella gara con la qualifica di primo pilota, però, c'era un'unica possibilità: fare il Calvaire con l'acceleratore a tavoletta. Il Calvaire era il nomignolo di una delle curve più pericolose di Reims, nomignolo guadagnato sul campo, perché aveva già ucciso. Solo un pilota era riuscito ad affrontarla a tutta velocità, Juan Manuel Fangio, il maestro. Luigi, due giorni prima della gara, si consultò con lui. Fangio confermò: fare il Calvaire al massimo si poteva, ma anche calibrare il respiro poteva far diventare quella mossa fatale. Luigi, il venerdì prima della gara, in prova, tentò. E riuscì. Era pronto a sfidare la sorte per i soldi, e per correre al titolo di campione dei mondo. Castellotti e Portago erano già morti, e i loro incidenti lo avevano profondamente scosso. Del primo, piangeva l'amico. Quanto al secondo, tremava al ricordo che l'auto che lo portò alla morte avrebbe dovuto invece guidarla lui. Fu la febbre improvvisa di quel giorno a decidere il cambio, e a salvarlo. Alla tragica coincidenza Luigi pensò spesso prima di quella maledetta domenica. Via. Le macchine erano schierate, pronte. Musso si sentiva in forma. Voleva essere il più veloce, voleva domare il Calvaire. Le mani stringevano forte il volante. Ma era, troppo veloce. Ed era nel punto sbagliato. Non poteva fare altro che alzare il piede. Il piede si alzò da solo. Un minimo. Quel minimo di troppo. Luigi frenò bloccando le ruote. Finì fuori pista, a 200 all'ora, falciando le spighe per trenta metri. Dopo tre capriole, venne gettato fuori dalla macchina. Morì all'ospedale di Reims alle 19,30 senza aver ripreso conoscenza: fratture multiple delle vertebre cervicali, sfondamento della base della scatola cranica, emorragia interna nella regione addominale. Qualche tempo dopo l'incidente, Fiamma tentò di buttarsi da una finestra ma l'afferrarono per le gambe appena in tempo. Tornò a vivere dai genitori. Poi Enzo Ferrari le inviò lettere affettuose e la invitò ad andare a Maranello. Fiamma partì. Era una donna troppo bella per rimanere sola.